Walter Siti, scrittore e critico letterario, autore del libro di recente pubblicazione “C’era una volta il corpo”, è stato ospite del "secondo lemma" del ciclo "al cuore dell’umano" dedicato al “corpo”.
Da dove partire? Dalla fine ovviamente, ma quale? Il segretario scientifico, Maurizio Balsamo, dopo le dovute presentazioni, ha citato la frase di chiusura del saggio:
“Ecco la nuova specie: i loro corpi saranno gli involucri in apparenza tradizionali di un sistema culturale sempre più in affanno, in un mondo che si sarà rassegnato a essere bersagliato da segni che non capisce; le voci che udranno durante il lavoro o l’intrattenimento saranno in maggioranza voci sintetiche. Corpi che comunque non potranno fare a meno di desiderarsi, e magari di amarsi.”
Tuttavia Siti sostiene che il vero finale è nell’epilogo, scritto in versi, che si conclude
“non credetemi quando parlo di corpi”.
D’altronde l’intero saggio oscilla e si dimena tra la persistenza del desiderio e quella del corpo in un gioco di rimandi storici, culturali, sociali e soprattutto personali, che è poi la grande cifra stilistica di Siti. L’autore ci dichiara in esergo cosa lo spinge in questa sua ultima fatica:
“La mia erotomania patetica e coatta, esposta a un tramonto che infiamma e fa le ombre lunghe, sta lanciando un allarme inutilmente apocalittico o avverte con leggerissimo anticipo un sommovimento epocale, come certe bestie captano qualche secondo prima un terremoto in arrivo?”
Domanda che rimane senza risposta conservandone tutto il suo valore evocativo e generativo. Così in parte è stato anche l’incontro con l’autore, ricco di sollecitazioni e sfuggente al tempo stesso, fedele all’invito di non prestar fede quando parla di corpi, evocando il fatto che parlar di corpi è parlar di materia che fugge.
Riporto qui di seguito alcune delle molte sollecitazioni emerse nella serata.
Balsamo ha coinvolto Siti in un dialogo introduttivo sui suoi rapporti con psicoanalisi e scrittura. Siti ha infatti collaborato con il critico letterario e francesista Francesco Orlando che si è occupato di formulare una teoria freudiana della letteratura, riferendosi, tra gli altri, ad Ignacio Matte Blanco. In merito, Siti oltre a ricordare che le lezioni di Orlando erano straordinarie, ritrova vera una sua idea: quella del “ritorno del represso”. Nel processo dello scrivere affiorano cose che non sapevi di voler dire.
Su questo, Balsamo riconosce un’affinità tra l’approccio “orlandiano” e quello analitico, e cita un passaggio di un testo di Siti dove si parla della scrittura come autobiografia di fatti non accaduti. Questo, in analogia con André Green quando si chiede: cosa è la storia di un individuo? Ciò che è accaduto a lui, ciò che è accaduto agli altri, ma anche la storia di ciò che non è accaduto a lui o agli altri, ciò che sarebbe dovuto accadere e non è accaduto, e così via. D’altronde anche Lacan afferma che la storia di un individuo non è il suo passato, ma ciò che di quel passato l’individuo ne ha fatto.
Siti risponde che in realtà la faceva più semplice. Quel che Balsamo immagina, scrivere autobiografie di fatti non accaduti, gli ricorda più la scrittrice premio Nobel Annie Erneaux. Per lui si tratta invece di un semplice espediente tecnico. Partiva da un senso di vergogna: non poteva scrivere ciò che realmente era accaduto e si rendeva necessario mescolare il vero con cose palesemente finte. Riprende infatti “Il patto autobiografico” di Lejeune, che spiega gli artifici per rendere verosimili i racconti. La sua tecnica è dunque quella di accostare fatti autobiografici reali e facilmente riconoscibili ed identificabili con fatti totalmente inventati. Questo è divertente perché crea confusione nei lettori che non riescono mai a poter dire se ciò che narra è realtà o finzione. Fino a quando, una volta, inventò un fatto di sana pianta che coinvolgeva due personaggi che ricalcavano persone reali. Peccato che il fatto inventato era realmente accaduto e questo causò un lungo dissidio tra le due persone coinvolte che si accusavano reciprocamente di aver tradito il loro segreto.
Balsamo tuttavia incalza, notando che la vergogna è il limite al tragitto identificatorio, una sorta di inibizione alla macchina del possibile e su questo concordano che, anche se alcune cose che Siti racconta non potrebbe neanche mai immaginare di poterle pensare, essendo nell’area dell’attraversamento dei fantasmi, nella narrazione diviene possibile rappresentare anche questo.
Siti ha dunque proseguito raccontando due artifici tecnici cui ricorre nelle sue narrazioni: la miniaturizzazione e la sovradeterminazione.
La miniaturizzazione consiste nel partire a teatro da un’azione molto visibile ed espansa e lentamente ridurla. Ad esempio se un personaggio deve fare una dichiarazione d’amore, il regista chiede all’attore di farla in bilico su una bicicletta posta un declivio. Dopo che l’attore interpreta la dichiarazione in questa condizione di precario equilibrio fisico, il regista chiede di ripeterla eliminando bici e declivio: a quel punto la dichiarazione d’amore risulterà convincente. Così funziona anche per i romanzi: si immagina un contorno che determina una scena, senza che questo venga riprodotto. La miniatura racchiude in sé tutta la forza di un intero scenario che rimane in latenza e ne libera con un solo dettaglio tutta la potenza.
Affianco a questo ricorre alla sovradeterminazione dei significati. Questo semplicemente fa riferimento alla ricorrenza di significati analoghi in contesti diversi. Se un suo amico usa un'espressione che ritrova anche in uno scritto, tende a riutilizzarla.
Si è poi passati alla discussione dei temi del libro “C’era una volta il corpo”.
Siti racconta che inizialmente si considerava la persona meno adatta a occuparsi dei corpi, perché ritiene di avere un vero e proprio handicap. Riesce a memorizzare unicamente i corpi che desidera, il resto delle persone sono per lui fisicamente difficilmente distinguibili. Parallelamente a questo personalissimo vissuto, si è reso conto di cosa sta succedendo ai corpi intorno a lui. Ad esempio, per scrivere il suo precedente romanzo, “I figli sono finiti”, aveva parlato con diversi ventenni, la materialità del sesso risultava per loro poco interessante, preferiscono sesso a distanza piuttosto che in presenza: alcuni di loro si connettono per vedersi masturbare simultaneamente. Lo ha dunque colpito che l’immagine avesse sostituito la presenza, la realtà. Così come lo ha colpito il successo di Only Fans, l’app che consente di vendere immagini parziali del proprio corpo. Allora se i giovani oggi, ciò che più desiderano è l’immagine e non il corpo, allora a quel punto che differenza fa se quel corpo è costruito da un’intelligenza artificiale? Oggi si può desiderare senza corpi? Diviene qualcosa di separato dal sé: i culturisti ad esempio parlano del proprio corpo in terza persona. Insomma, dal momento che ha notato che l’immagine stava prendendo il posto del corpo, si è trovato a suo agio nel parlarne, in sintonia con la sua tendenza a cancellare i corpi intorno a lui che non desidera.
Si è dunque lasciato alla sala, la possibilità di interloquire. Amalia Giuffrida nota un certo pessimismo nelle considerazioni dell’autore che ravvisa un rapporto sempre più estraneo con il corpo. Citando Freud, nel compendio, afferma che il vero psichico è il somatico. Che ne è dunque oggi di questo? Giustamente si vede che i ragazzi preferiscono il sesso virtuale, la chirurgia, etc. ma se il vero psichico è il somatico, che ne è dell’inconscio e della pulsione? La polarità falso sé - vero sé (che nella dissertazione di Siti si potrebbe tradurre nella polarità corpo come immagine e corpo desiderato/desiderante), che non è poi così schematica, esprime pur sempre che anche il falso sé ha le radici nei tessuti corporee. Il vero sé che deve rimanere nascosto e mai comunicante si deve insediare nel corpo, ma può succedere che questo non avvenga e allora c’è una dissociazione che può essere il falso sé, che si incarica di vivere la dimensione del corpo al suo posto. Ciò che tuttavia è fondamentale sono i gradienti di questo rapporto: l’aspetto quantitativo, l’entità della dissezione falso-sé/vero-sé. È vero che c’è una tendenza del sociale, un’influenza culturale che può contribuire a questa dissociazione, ma ci sono anche tantissime situazioni che possiamo considerare dal punto di vista della clinica psicoanalitica: per noi analisti il corpo parla. Ad un estremo possiamo trovare la situazione più tragica, ovvero ciò che Winnicott chiama “il niente al centro”, ovvero l’assenza di identità, ma in questo caso il corpo non diventa forse un organizzatore per il falso sé? La patologia del corpo come falso sé in certi casi è l’unico modo che permette all’individuo di sopravvivere.
Su queste differenti sollecitazioni, Siti risponde che il suo modo di desiderare i corpi era un trampolino verso l’assoluto, tuttavia per poter trascendere il corpo c’è bisogno che esista. Per quanto riguarda l’inconscio, si può dire che mentre è possibile che un’intelligenza artificiale abbia coscienza, è impossibile che avrà mai un inconscio. Le persone di cui parla nel libro appartengono tutte al falso sé. Tuttavia questo discorso gli fa pensare alla guerra come esperienza assolutamente corporea, situazione che costringe questo nocciolo del falso sé a confrontarsi con il suo essere morituro. Lo ha fatto riflettere in proposito ciò che si narra dei soldati nord coreani inviati a combattere in Ucraina. Lì, lontani da tutto, scoprono di poter improvvisamente accedere ad una rete web libera da censura. Scoprono la pornografia libera ed illimitata. Questo ha comportato che la notte non dormissero più e che il giorno dopo diventavano facili prede del nemico portandoli a morire a migliaia. Quale dunque è il rapporto tra desiderio e paura? La paura è corporea per definizione e non si può sublimare, mentre il desiderio trascende continuamente la sua origine.
Chiara Buoncristiani, racconta il cortometraggio premio Oscar: “I am not a Robot” (https://www.youtube.com/watch?v=4VrLQXR7mKU&ab_channel=TheNewYorker), dove la protagonista si ritrova a dover dimostrare ad un algoritmo (il test Captcha) che è un essere umano. Dovendolo dimostrare ad un robot, la protagonista, che non a caso è una donna (un non-uomo, cui la parola umano fa inevitabile riferimento) entra in crisi.
Agli interventi si sono aggiunte le osservazioni di Lorena Preta che ribalta la questione notando che non siamo di fronte alla sparizione dei corpi, ma ad un’invasione. Richiamando in parte alcune riflessioni espresse in un numero monografico di Psiche dedicato al tema, si chiede che cosa manchi o che cosa serva per poter parlare del corpo. Cita dunque il concetto di equazione simbolica della Segal esemplificato dalla nota vignetta clinica del paziente che non può permettersi di suonare il violoncello in pubblico dal momento che per lui equivale alla masturbazione: è l’assenza del simbolo che soffriamo, non l’assenza del corpo!
Siti confessa che a lui non è mai stata molto chiara la cosa del simbolico. È d’accordo con il fatto che il corpo perde importanza perché ce ne è troppo. Nota spesso nelle persone intorno a lui che è come se avessero continuamente un atteggiamento inconscio di chi si mostra per un selfie. Si chiede, sollecitato dall’intervento della Preta, se non accada proprio l’inverso: se il corpo è uguagliato ad un oggetto, tutti dovrebbero accorgersi che è una masturbazione, allora ci sarebbe la necessità di nasconderlo per vergogna e non si sarebbe più capace di metterlo in mostra per venderlo. Invece chi vende le proprie immagini su Only Fans, o gli adolescenti che inviano le proprie foto per soldi, sono convinti che ciò che vendono non è il proprio corpo: come se dicessero che fino a quando il corpo rimane un oggetto da consumare e con cui fare fortuna, non può diventare nulla di simbolico, se invece lo incarno in qualcosa non può più essere venduto. Ma su questo riconosce di non sapere cosa pensare. Gli viene in mente il libro “Narciso storia del selfie da Caravaggio a Kim Kardashian” che contesta che i selfie siano la prova di massimo egocentrismo. Narciso non sapeva di essere narcisista: non sapeva che l’immagine di cui si innamora nello specchio d’acqua era la sua. Comunica piuttosto l’idea che a forza di fare selfie posso trasformarmi, siamo dunque nella area della non contentezza di sé e del desiderio di voler cambiare.
La serata si è dispiegata attraverso altri interventi dalla sala che non riesco a riportare qui nella loro interezza e complessità.
Sono stati infatti evocati anche i sensi, la sensorialità, gli aspetti del corpo che lo mettono in relazione con il mondo e con gli altri; si è riflettuto sulla tecnologia, sull’impatto di questo sull’educazione delle nuove generazioni, oltre che sulle relazioni e ovviamente sulla sessualità e le sue varie e nuove forme (o assenze).
Il tema d’altronde non può dunque che espandersi mano a mano che lo si esplora…